Il Museo dell’abbandono
Lanciato di recente, il Museo dell'abbandono vuole essere un progetto partecipativo e uno spazio che dovrebbe contribuire all'esplorazione di questo trauma.
Ana-Maria Cononovici, 01.11.2021, 11:55
Lanciato di recente, il Museo dell’abbandono vuole essere un progetto partecipativo e uno spazio che dovrebbe contribuire all’esplorazione di questo trauma. Nell’ambito di questo progetto sono stati prodotti 21 cortometraggi dedicati al fenomeno dell’abbandono e al modo in cui questo trauma ci ha segnato come società. Ne abbiamo parlato con lo storico Simina Bădică, curatrice del progetto.
Il Museo dell’abbandono è un’iniziativa nata quest’anno, finanziata dall’Associazione del Fondo Culturale Nazionale. Praticamente, si tratta di un museo digitale che recupera una parte difficile e traumatica della nostra storia e della nostra vita. Di solito le persone evitano argomenti dolorosi, che, comunque, rimangono lì, non se ne vanno e continuano a perseguitarci. Pur trattandosi di un museo virtuale, è stato aperto in un luogo molto reale: la Residenza per minori con disabilità irrecuperabili di Sighetu Marmatiei, il cui edificio è stato scansionato digitalmente. Era così che si chiamava questa struttura nel 1989. È stata chiusa nel 2003 ed è rimasta una sorta di capsula del tempo. Il fatto di averla scansionata permette agli internauti di tutto il mondo di scoprirla allo stesso modo in cui lo abbiamo fatto noi la scorsa estate, con tutti i suoi drammi e le sue storie. Abbiamo quindi aperto un museo virtuale in un luogo reale che i visitatori possono scoprire virtualmente e dove verranno organizzate mostre come in qualsiasi museo del mondo. La visita non si riduce a una passeggiata all’interno di un edificio abbandonato. E’ un’occasione per conoscere la storia dell’abbandono e dei bambini assistiti. Attraverso questo museo, cercheremo di rispondere alla domanda: come poteva accadere un dramma del genere negli anni ’90 quando le immagini degli orfanotrofi romeni facevano il giro del mondo?, spiega Simina Bădică.
È un museo che racconta la storia dei bambini abbandonati della Romania comunista e post-comunista, una storia che molti romeni hanno preferito ignorare, afferma la nostra interlocutrice, che ripercorre l’essenziale di una visita a questo museo virtuale. Il museo presenta tanti aspetti e oggetti della vita quotidiana dei bambini assistiti. I battenti hanno chiuso definitivamente nel 2003, ma molti oggetti – mobili, letti, giocattoli, scrivanie, disegni, decorazioni, insegne con i nomi dei bambini o con i nomi delle diverse sezioni – sono ancora lì e contribuiscono a ricreare virtualmente questa atmosfera pesante. In ogni stanza abbiamo fatto in modo che ci fosse almeno un oggetto in grado di raccontare una storia, per testimoniare il destino di tutti questi bambini abbandonati non necessariamente dai genitori, quanto piuttosto dallo Stato, dall’intera società. In ciascuna delle stanze, una storia sarà tessuta da un singolo oggetto. Potrebbe essere un capo di abbigliamento, perché sono stati lasciati molti capi di abbigliamento, un giocattolo, un cucchiaio piegato che serviva per nutrire i bambini o un piatto di acciaio inossidabile, aggiunge la nostra ospite.
Le abbiamo chiesto di raccontarci una delle storie presentate dal museo. E’ difficile scegliere tra tutte le testimonianze. Uno dei motivi per cui abbiamo scelto di presentare queste storie in un museo è perché è difficile ascoltarle. Tra i documenti trovati qui c’era un verbale in cui un’officina biancheria indicavan come aveva usato 30 metri di tessuto. E apprendiamo che li ha usati per cucire camicie di forza in tre taglie: piccola, media e universale. Quindi abbiamo pensato che, dal momento che queste canottiere erano state realizzate, avrebbero dovuto essere da qualche parte nell’edificio, perché non era il tipo di articolo che volevamo tenere per noi. E infatti, abbiamo finito per trovare le camicie di forza di medie dimensioni, aggiunge Simina Bădică.
Abbiamo chiesto a Simina Bădică se è a conoscenza di cosa fosse successo a tutti questi bambini. Sì, molti sono stati ritrovati e il museo presenterà anche le storie a lieto fine di alcuni sopravvissuti, come siamo abituati a chiamare tutti coloro che sono sopravvissuti a questo sistema di cosiddetta protezione dell’infanzia. Coloro che sono stati adottati o affidati a famiglie in tenera età, alla fine superano i loro traumi. Durante una visita al museo si potrebbe, ad esempio, conoscere la storia di Robi, affidato all’età di 5-6 anni ad una signora che ha finito per adottarlo, cosa che gli ha permesso di trasformarsi in un giovane coraggioso, attualmente ventenne, con un discorso equilibrato, che ha un lavoro e risente poco l’esperienza del passato, considerando l’età che aveva all’epoca. D’altra parte, a guardarlo, non si può fare a meno di chiedersi come sia stato possibile che un bambino così fosse rinchiuso in una struttura per minori con disabilità irrecuperabili, conclude la nostra ospite.
Il Museo dell’abbandono è un invito a conoscere, anche solo virtualmente, una pagina dolorosa della storia comunista che non dovrebbe mai essere ripetuta.