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Bărăgan – luogo delle deportazioni comuniste

Da sempre zona scarsamente popolata, ma molto fertile dal punto di vista agricolo, il Bărăgan fu un luogo scelto dal regime comunista per punire circa 40.000 persone considerate nemici di classe.

Il teatro radiofonico per bambini
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, 30.05.2024, 21:20

Da sempre zona scarsamente popolata, ma molto fertile dal punto di vista agricolo, il Bărăgan fu un luogo scelto dal regime comunista per punire circa 40.000 persone considerate nemici di classe. Tutte le testimonianze di coloro che hanno trascorso diversi anni della loro vita in questa parte orientale della pianura romena, alcune di esse registrate anche dal Centro di Storia Orale della Radiodiffusione Romena, descrivono le stesse condizioni di vita negli anni ’50.

Nel 1951, il regime comunista cominciò a mandare in Bărăgan alcune categorie di persone che dovevano essere punite per quello che erano: contadini della classe media, alcuni membri delle minoranze tedesca, serba, ungherese, aromena, romeni della Bessarabia fuggiti dalla Bessarabia occupata dai sovietici nel 1944. Tra di loro c’era l’allieva Elena Boroș, rifugiatasi dalla Bessarabia con i suoi genitori nella Romania occidentale, nel Banato. “Ero a Sânnicolau Mare, alla scuola tecnica agraria, quando presero i miei genitori. Quindi, in una notte, non solo dal Banato, ma anche dal Mehedinti, nella stessa notte furono tutti presi. Ma da quello che mi hanno detto i miei genitori, alle 12 di sera sono arrivati una guardia di sicurezza e un miliziano e hanno detto loro di fare le valigie perché dovevano andarsene. Il giorno dopo ho ricevuto una telefonata da mio padre che mi ha detto di tornare a casa urgentemente, con il primo treno, e che non li avrei trovati a casa ma alla stazione. Quando sono arrivata alla stazione, i miei genitori erano già sul binario con i bagagli e mi aspettavano. Dopo il mio arrivo ci caricarono subito sul vagone e partimmo.”

La paura della gente era massima. Non sapevano dove li avrebbero portati, vivevano nel terrore di ritornare nell’Unione Sovietica e di essere mandati ulteriormente in Siberia. Elena Boroș ha ricordato le sue prime impressioni sul luogo dove sarebbe dovuta vivere dopo. “Quando sono arrivata qui la mattina, a Nicoleşti-Jianu, il treno si è fermato. Papà ha chiesto alla guardia di sicurezza, quando ha visto che il treno era fermo su una binario morto, se non andassimo oltre. La guardia di sicurezza ci ha detto che saremmo rimasti lì. Sono arrivati dei camion vuoti, hanno preso a tutti i bagagli che avevano, noi siamo saliti su un camion che ci ha portato a Satu Nou. In effetti non era un villaggio nuovo, era un campo vuoto. Il villaggio era stato tracciato, con strade e case, era stato tracciato ogni appezzamento di 2500 metri. Alcuni, dove si fermavano, vedevano che il posto era libero e lì rimanevano. Dove ci siamo fermati noi si seminava il grano, ma c’era qualche palo qua e là, e abbiamo deciso di fermarci li’. Ho scaricato e sono rimasta all’aria aperta. E ci chiedevamo cosa avremmo fatto.”

La prima notte dormirono all’aperto, sotto coperte e stuoie. Il giorno dopo iniziarono a costruire le loro case, le prime furono le casupole. Poi scavarono pozzi per l’acqua. Dopo una settimana, arrivarono le autorità e li mandarono in una fattoria a lavorare nella raccolta del cotone. Anche Vasile Nenita fu deportato in Bărăgan, quando era bambino. E si ricordò della desolazione in cui era arrivato insieme ai suoi genitori e ad altri sventurati. “Faceva molto caldo in Bărăgan. Non c’era acqua, ce l’hanno portata con un’autocisterna da Borcea e la gente è andata a prendere l’acqua e l’abbiamo bevuta per molto tempo. Molte persone si sono ammalate a causa di quell’acqua. Il dolore più grande che ricordo, ero ancora bambino, 11 anni, fu che nel primo anno fu costruito un cimitero molto grande. Molti non resistettero quell’inverno, soprattutto gli anziani del Banato. Il clima del Banato era temperato, c’era un clima freddo. Fu un inverno duro e non riuscirono a resistere. Molti sono morti. E questo è successo ovunque, anche nel resto dei villaggi del Bărăgan, non solo qui. In Bărăgan non c’era niente, solo un campo aperto. Si poteva avvistare un albero a 100-200 metri di distanza. Questo era il Bărăgan, a perdita d’occhio c’era un campo! E quando arrivavano quei venti e quei turbini, come nel romanzo I Cardi del Bărăgan, era ancor peggio!”

Vasile Neniță ha ricordato anche il momento in cui la stessa Ana Pauker, ministro degli Esteri del governo comunista, fece una visita per esortare i deportati a costruire le loro case. Track: “È arrivata in elicottero ed è atterrata lì. Prima e’ venuta la milizia e ha sunato il tamburo nel villaggi per radunare la gente. Non sapevamo perché e anche allora ci dissero che dovevamo costruire delle case. E formarono squadre di 8-10 persone e fu stabilito l’ordine di costruzione delle case. Erano fatte di terra battuta, venivano posizionate delle assi e veniva versata la terra. E furono costruite case con due stanze e una cucina, coperte. Ci portarono loro il legno, la carpenteria del tetto e il giunco.”

Dopo 4 anni di privazioni estreme, nel 1955, le autorità permisero ai deportati di andare dove volevano. La maggior parte di loro ha scelto di rivisitare i propri luoghi d’origine, lasciando dietro di sé un’esperienza di vita estrema.

Foto: pixabay.com
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