La prospettiva utilitaristica sulla migrazione della manodopera
Dal 2022 a oggi, il Governo romeno ha fissato una quota di 100.000 lavoratori stranieri ogni anno. Secondo i dati forniti dall'Ispettorato generale per l'immigrazione, le comunità più numerose per le quali sono stati rilasciati visti di lavoro sono quella nepalese, srilankese, pakistana e bengalese.
Iulia Hau, 01.04.2025, 20:21
Dal 2022 a oggi, il Governo romeno ha fissato una quota di 100.000 lavoratori stranieri ogni anno. Secondo i dati forniti dall’Ispettorato generale per l’immigrazione, le comunità più numerose per le quali sono stati rilasciati visti di lavoro sono quella nepalese, srilankese, pakistana e bengalese. I principali settori che richiedono manodopera straniera sono l’edilizia e le infrastrutture, l’agricoltura, le pulizie, i magazzini e la logistica, l’industria automobilistica, il settore alberghiero e quello alimentare.
Tuttavia, raramente parliamo di questi nuovi arrivati in termini diversi da quelli economici. Luis Escobedo, ricercatore di origine peruviana residente in Romania, indaga nel dettaglio il problema del razzismo e dell’interculturalità. Con esperienza di lavoro e di vita in Polonia e Sud Africa, Escobedo è attualmente ricercatore associato della Società per gli studi interculturali e sulla migrazione di Bucarest e del Dipartimento “Unità per il cambiamento istituzionale e la giustizia sociale”, associato della Free State University in Sud Africa. Egli ci ha parlato della prospettiva utilitaristica che abbiamo come società sulla recente migrazione. “Possiamo parlare di tre elementi concreti, che costruiscono questo tipo di prospettiva. Uno è il fatto che la Romania ha un’inclinazione verso l’Occidente. E in Occidente abbiamo già una prospettiva utilitaristica. Stiamo parlando del fatto che, per loro, l’immigrazione significa uno strumento con cui risolvere i problemi demografici ed economici. Allo stesso tempo, abbiamo altri elementi, abbiamo un elemento neoliberista e questo è legato al primo elemento. Abbiamo una prospettiva molto chiara sull’Occidente, ne parliamo come di un elemento monolitico, che non ha diversità, (consideriamo) che lì è tutto più sviluppato, che sono migliori di noi, non parliamo con complessità, e ciò si addice all’elemento neoliberista. Quindi, per loro, c’è solo un modo di pensare allo sviluppo e in questo modo l’economia del marketing o della globalizzazione è l’unica opzione che abbiamo.”
Il terzo elemento spiegato dall’esperto è la costruzione ideologica di una classe media, abbracciata soprattutto dagli abitanti delle aree urbane. Secondo il discorso legato a questa ideologia, il duro lavoro equivale al valore umano. “Se lavoriamo davvero duro, possiamo arrivare ovunque e avere successo”, spiega Escobedo. Il peccato di questo discorso, afferma il ricercatore, è che non tiene conto delle differenze di ambiente, genere, orientamento sessuale, classe sociale, ecc.
Alla domanda su come questa prospettiva utilitaristica influisce sui migranti in Romania, Luis Escobedo risponde: “Consideriamo un migrante o i migranti in generale come qualcosa di utilizzabile e non qualcosa che include persone. Persone come noi, persone normali, persone con vite ed esperienze diverse, che, dal nostro punto di vista, appartengono a un unico gruppo di lavoratori venuti solo per sviluppare la nostra economia e risolvere i nostri problemi demografici. Non abbiamo più sogni, non abbiamo più famiglie, non abbiamo più piani, progetti e così via. Non siamo considerati persone complesse quando siamo considerati una categoria astratta di migranti. Si dice solo: “Siete venuti qui per lavorare per noi e pagare le tasse”.
L’esperto spiega che questo atteggiamento, che non vede sfumature, non può tenere conto delle diverse circostanze di ogni persona, il che rende i migranti più colpiti (da problemi personali, di salute, da condizioni di lavoro abusive) ancora più vulnerabili.
Alla domanda su quali siano le strategie con cui i migranti affrontano le situazioni difficili che incontrano, Escobedo risponde: “Prima di tutto è difficile rendersi conto che stia succedendo loro qualcosa. Pensano, sì, sono stanco. È normale, perché lavoro tanto, perché per noi migranti è così. Questa è la nostra realtà. Sono molto felice di essere potuto venire qui e altri hanno una vita molto peggiore della mia e sono stato molto fortunato. Poi, prima di tutto, creano una sorta di difesa o un qualche discorso di difesa per poter essere qui tranquilli. Ma allo stesso tempo ne risentono e le conseguenze materiali si vedono nella loro vita quotidiana, quando tornano a casa e non hanno niente nel frigorifero o non hanno elettricità per il frigorifero o devono condividere il frigorifero con altre persone. E ci sono anche conflitti e gerarchie: chi mangia primo, chi deve aspettare per usare la cucina, se c’è. A questo punto iniziano a svilupparsi tensioni, conflitti, problemi interni e, allo stesso tempo, loro iniziano anche a sviluppare soluzioni. Come fare? Siamo in cinque o sei a casa e la cucina è affollata? Ok, conosco qualcuno che mangia al lavoro. Poi inizio anch’io a mangiare lì, inizio a sviluppare relazioni sociali (attraverso le quali) riesco a cavarmela meglio.”
A un livello più profondo, spiega Escobedo, altre strategie riguardano i leader che si formano in tali comunità: leader che iniziano a sviluppare istituzioni, a difendere i diritti, a costruire comunità di sostegno emotivo o spazi in cui possono godere del riconoscimento culturale da parte della cultura ospitante. Un’altra strategia altrettanto valida è quella di sposare un cittadino della società ospitante “e non solo per i documenti”, spiega il ricercatore, “ma magari perché vuole far parte della comunità, vuole essere romeno”.