Lo sfruttamento dell’oro in Romania
Sul territorio della Romania, l'oro è stato sfruttato sin dal Neolitico.
Christine Leșcu, 06.03.2018, 09:40
Sul territorio della Romania, l’oro è stato sfruttato sin dal Neolitico. Accanto ad altre risorse paragonabili al suo valore – l’oro bianco, ovvero il sale, e l’oro nero, ovvero il petrolio – l’oro propriamente detto non costituì solo una risorsa per vivere, ma anche un magnete per i conquistatori. I primi furono i romani che, in seguito alla conquista della Dacia nel 106 d.C., cominciarono a organizzare lo sfruttamento dell’oro nell’attuale Transilvania, finora eseguito in maniera rudimentale. I daci raccoglievano solo l’oro alluvionale dai numerosi fiumi di montagna che attraversano i Carpazi.
Radu Lungu, autore del volume L’oro dei romeni, spiega cosa è cambiato dopo la conquista romana. L’imperatore Traiano cominciò subito a organizzare la Dacia Felix, soprattutto la regione dei Carpazi Occidentali dove si trovava la maggior parte dei giacimenti di oro. La Legio XIII Gemina fu insediata ad Apulum (l’odierna città di Alba Iulia), per assicurare il controllo militare della regione. Inoltre, fu nominato anche un procuratore ad Ampelum (l’odierna Zlatna), incaricato a sorvegliare le miniere d’oro. I romani cominciarono a estrarre non solo l’oro di superficie, ma anche i giacimenti di profondità, scavando fino a 300 metri, spiega Radu Lungu. Le più importanti miniere d’oro aperte dai romani erano raggruppate nel cosiddetto quadrilatero dei Carpazi Occidentali, delimitato dai fiumi Aries, Crisul Alb e Mures. Si trattava dei giacimenti del perimetro Rosia Montana – Zlatna – Bucium. Successivamente, l’interesse si spostò verso il sud-ovest, soprattutto sul territorio attuale della provincia di Caras-Severin della regione Banato-Oltenia e dello stretto del Danubio. Quasi tutto l’oro e argento estratto dai Carpazi Occidentali arrivava a Roma. Dopo il ritiro dell’amministrazione romana, deciso nel 271, cominciò un degrado delle miniere d’oro aperte dai romani, spiega Radu Lungu.
Durante le grandi migrazioni, per un migliaio di anni, l’unica modalità di estrarre l’oro era rimasta quella alluvionale. Poi, sotto il regno ungherese, avvenne un certo rinvigorimento, però il vero sviluppo si registrò dopo il 1700, con l’integrazione della Transilvania nell’Impero asburgico, aggiunge Radu Lungu. In quel periodo cominciò una sorta di industrializzazione, grazie alla modernizzazione della tecnologia di estrazione e sfruttamento, aggiunge l’autore del volume L’oro dei romeni.
C’erano moltissimi minatori tedeschi, giunti dalla Slesia e dalla Slovacchia. Ma c’erano in ugual misure numerosi minatori del posto. Ai tempi degli Asburgo esistevano delle miniere private, piccole e medie, ma anche piccole imprese, alcune di proprietà dei contadini, liberi o servi della gleba. Agli ultimi venivano affidate in una specie di concessione, avendo solo il diritto di usufrutto, spiega ancora Radu Lungu, che ci offre anche i dettagli sulle quantità d’oro estratte lungo i secoli, durante i tre grandi periodi di sfruttamento: romano, asburgico e comunista.
Si stima che dall’inizio delle attività di sfruttamento ad oggi siano state estratte 2.200 tonnellate di oro, di cui 700.000 chili nel periodo romano; altri 500.000 chili dal IV al XVI/o secolo, e circa 750.000 chili di oro puro nell’epoca asburgica. Invece, ai tempi del comunismo vennero estratti quasi 200.000 chili, quindi una diminuzione notevole, ma comunque era una quantità importante, conclude Radu Lungu.
Il Ministero della Cultura ha dichiarato sito storico, di importanza nazionale, la località di Rosia Montana, dove funzionava sin dai tempi dei romani l’antica miniera di Alburnus Maior, il che significa, al momento, anche stop allo sfruttamento dell’oro. I motivi di questa decisione sono legati a controversie culturali, economiche ed ecologiche, provocate da un contratto di sfruttamento e concessione delle miniere della zona.